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Newsletter giuridica di concorrenza e regolamentazione

Diritto della concorrenza UE / Aiuti di Stato e trasporti – La Corte di Giustizia stabilisce che la vendita senza gara di Ferrovie del Sud Est dal Ministero a FS costituisce un aiuto di Stato

La Corte di Giustizia (la Corte), confermando e, in una certa misura, rafforzando le conclusioni precedentemente espresse dall’Avvocato Generale (già commentate nella nostra newsletter), con sentenza del 19 dicembre 2019, ha affermato che:

(i) sia lo stanziamento di una somma di denaro (nel caso de quo, € 70 milioni – lo Stanziamento) in favore di un’impresa pubblica che versa in gravi difficoltà finanziarie (i.e. la società Ferrovie del Sud Est e Servizi Automobilistici SpA - FSE, concessionaria di infrastrutture e servizi ferroviari in Puglia, e già commissariata a causa delle citate difficoltà), sia il trasferimento dell’intera partecipazione detenuta da uno Stato membro (i.e. il Ministero delle infrastrutture e dei trasporti italiano) nel capitale di detta impresa a un’altra impresa pubblica (nel caso de quo, Ferrovie dello Stato Italiane – FSI), senza alcun corrispettivo, ma in cambio dell’obbligo per quest’ultima di rimuovere lo squilibrio patrimoniale della prima impresa (il Trasferimento), costituiscono «aiuti di Stato» ai sensi di tale articolo 107 TFUE;

(ii) una volta accertato l’esistenza di uno o più aiuti di Stato, e fermo che un giudizio circa la sua compatibilità con il mercato interno è esclusiva competenza della Commissione, spetta al giudice del rinvio trarre tutte le conseguenze derivanti dal fatto che tali aiuti non sono stati notificati alla Commissione europea, in violazione del disposto dell’articolo 108, par. 3, TFUE, e devono pertanto essere considerati illeciti, ivi incluso l’annullamento del decreto di trasferimento del 100% del capitale della società de qua.

Il rinvio in via pregiudiziale alla Corte era stato operato dal Consiglio di Stato, dinanzi al quale pende il giudizio di appello, avviato da Arriva – società del gruppo tedesco Deutsche Bahn – ed altre imprese attive nel settore del trasporto pubblico, avverso la sentenza del TAR che aveva rigettato il ricorso delle stesse parti contro il decreto ministeriale che ad agosto 2016 aveva disposto il Trasferimento di FSE a FSI.

Con riguardo alla conclusione riassunta al punto sub (i), la Corte ha operato la qualificazione come aiuti di Stato accertando, in relazione sia allo Stanziamento sia al Trasferimento (congiuntamente, le Misure), la sussistenza di tutti gli elementi costitutivi di tale fattispecie, ossia: che le Misure trasferivano risorse imputabili allo Stato; l’incidenza sugli scambi tra Stati membri; la selettività dell’aiuto; nonché l’idoneità a falsare la concorrenza. Al riguardo, pare in particolare d’interesse notare che la Corte abbia ritenuto che:

- il fatto che lo Stanziamento non avesse comportato alcuna materiale uscita di cassa dal bilancio dello Stato italiano non significa, di per sé, che tale somma non potesse essere qualificata come «risorsa statale», in quanto è sufficiente che la società beneficiaria abbia il diritto di avvalersi di tale somma (cosa che FSE aveva peraltro fatto iscrivendo in bilancio – e quindi utilizzando – le relative somme);
- il criterio dell’investitore privato non poteva ritenersi soddisfatto, poiché nessuna evidenza era stata fornita circa il fatto che lo Stato italiano aveva effettuato alcuna preliminare valutazione della redditività né in relazione allo Stanziamento, né al Trasferimento;
- la destinazione del finanziamento alla costruzione di una infrastruttura ferroviaria era stata disposta in un momento ben successivo a quello iniziale dello Stanziamento, e comunque non avrebbe avuto alcun rilievo in quanto si trattava di un’infrastruttura non a disposizione dei potenziali utenti a condizioni identiche e non discriminatorie, (dato che FSE gode di un diritto esclusivo a tale utilizzo per la durata del suo contratto stipulato con la Regione Puglia);
- l’idoneità delle Misure a falsare la concorrenza non è messa in discussione dal fatto che l’AGCM abbia autorizzato la concentrazione tra FSI e FSE in fase I, dato che la valutazione degli effetti sulla concorrenza di un’operazione svolta alla luce delle norme sul merger control è sostanzialmente diversa da quella relativa alla possibile esistenza di un aiuto di Stato.

In ragione inter alia di ciò, la Corte si è quindi espressa – come anticipato supra – nel senso di qualificare lo Stazionamento e il Trasferimento come aiuti di Stato.

A questo punto, spetterà al Consiglio di Stato applicare tali principi nel caso di specie, fermo che le misure in questione non erano state notificate alla Commissione e risultano quindi illecite. Al riguardo, peraltro, va osservato come la Corte di Giustizia, in relazione al punto (ii) di cui supra, è stata piuttosto chiara nell’indicare che, oltre alla possibile restituzione dello Stanziamento, “… il ripristino dello status quo ante implicherà, se necessario, la revoca [del] [T]rasferimento mediante la riassegnazione della partecipazione nel capitale di FSE al Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti nonché la neutralizzazione di tutti gli effetti di tale [T]rasferimento”.

Resta quindi ora da vedere se il giudice a quo riterrà necessario ordinare al Ministero di agire in tal senso.

Alessandro Di Giò
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Diritto della concorrenza e tutela del consumatore Italia / Intese e servizi di vigilanza armata – L’AGCM sanziona per oltre €30 milioni le principali società attive del settore per una strategia collusiva in gare pubbliche in Lombardia, Emilia-Romagna e Lazio

Con la decisione dello scorso 12 novembre (Provvedimento), l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM o l’Autorità) ha concluso il procedimento istruttorio (Procedimento) – avviato con decisione del 21 febbraio 2018 – nei confronti delle principali società attive nel mercato della fornitura di servizi di vigilanza armata, ossia Coopservice S.Coop.p.A. (Coopservice); Allsystem S.p.A. (Allsystem); Istituti di Vigilanza Riuniti S.p.A. (IVRI) nonché le sue controllanti Skibs S.r.l. e Gruppo Biks S.p.A.; Italpol Vigilanza S.r.l. (Italpol) e la sua controllante MC Holding S.r.l.; Sicuritalia S.p.A. (Sicuritalia) e la sua controllante Lomafin SGH S.p.A. (congiuntamente le Parti), sanzionando queste ultime per un ammontare complessivo di oltre €30 milioni per aver adottato un comportamento gravemente lesivo della concorrenza, contrario all’articolo 101 TFUE.

Il suindicato Procedimento ha trovato avvio successivamente alla ricezione da parte dell’Autorità di varie segnalazioni di alcune associazioni di categoria, stazioni appaltanti, nonché dall’Autorità Nazionale Anticorruzione (ANAC). Di particolare rilevanza appaiono le segnalazioni pervenute dall’Associazione Nazionale Istituti di Vigilanza (ANIVP) nonché dall’Associazione Italiana di Vigilanza (ASSIV), le quali hanno inteso esprimere la propria preoccupazione circa il fatto che la gara bandita dalla Azienda Regionale Centrale Acquisti S.p.A. (di valore complessivo di €47 milioni) sia stata aggiudicata ad un raggruppamento temporaneo di imprese (RTI) composto dai principali player di mercato (ossia, appunto, Sicuritalia; Allsystem; Italpol; e IVRI).

Secondo la ricostruzione operata dall’Autorità, le suddette Parti hanno posto in essere un’intesa unica, continuata e complessa, di natura segreta, costituente una restrizione della concorrenza ‘per oggetto’, al fine di assicurare l’adozione di una strategia partecipativa coordinata a 12 gare pubbliche di rilevante importanza bandite – tra il 2013 ed il 2017 – da enti appaltanti siti in Lombardia, Emilia-Romagna e Lazio. Così facendo, le suddette società hanno garantito la ripartizione del mercato tramite l’affidamento concordato dei sopra menzionati servizi nonché di quelli a questi connessi e la cristallizzazione delle rispettive aree geografiche di storica competenza. A tal proposito, è rilevante notare come l’intesa abbia trovato un proprio sviluppo in un mercato (quale quello dei servizi di vigilanza) che ha subito un processo di liberalizzazione nel 2008 ed in cui non appaiono ancora completamente superate le tradizionali suddivisioni territoriali vigenti nel periodo ante riforma.

Nonostante le Parti abbiano fermamente negato – in corso d’istruttoria – l’esistenza di un’intesa unica e complessa, nonché la sussistenza di un unico ‘piano d’insieme’, l’Autorità ha ritenuto che le varie condotte contestate fossero unite da uno stesso disegno collusivo di spartizione del mercato, nonché di “mantenimento degli equilibri” già esistenti e che la neo-intervenuta liberalizzazione aveva tentato di superare in favore di un approccio maggiormente orientato ad una logica pro-competitiva.

Secondo quanto sostenuto nel Provvedimento, le Parti hanno assicurato un costante coordinamento delle relative strategie partecipative – oltre che per il tramite di un complesso sistema di compensazioni, con un sistematico affidamento reciproco di commesse (attuato tramite la conclusione di specifici accordi bilaterali di non partecipazione) – anche attraverso l’utilizzo di strumenti di per sé leciti quali i raggruppamenti temporanei di imprese (RTI) ed il subappalto. Con particolare riguardo a tali strumenti, infatti, l’Autorità ha sottolineato che le Parti abbiano partecipato alle gare in esame per il tramite di RTI di natura fittizia, volti a celare la reale intenzione di attuare una precisa ripartizione geografica dei lotti in gara. In altre parole, la ratio di tali RTI era diversa e ulteriore rispetto alla lecita e funzionale necessità di assicurarsi una possibilità di partecipazione alla gara de qua, e coincidente con la volontà di evitare l’instaurazione di una dinamica concorrenziale all’interno del mercato in esame.

A tal proposito, l’Autorità ha rilevato che le quote che ciascuna delle società detenevano all’interno di ogni RTI o contratto di subappalto erano determinate secondo logiche estranee da esigenze di efficienza. Sul punto, l’AGCM ha inoltre sottolineato che le Parti nel corso dell’istruttoria non hanno mai dimostrato la reale indispensabilità dei detti RTI o dei contratti di subappalto a fini della partecipazione alle gare in questione.

Il Provvedimento in esame risulta di particolare rilevanza in quanto pone l’attenzione su una pratica, ossia l’utilizzo – in sede di gara d’appalto – di strumenti leciti (quali appunto i raggruppamenti temporanei di imprese nonché i contratti di subappalto) e pro-competitivi, che vengono invece utilizzati con finalità collusive e anticoncorrenziali.

Luca Feltrin
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Pratiche commerciali scorrette e servizi di telefonia fissa – Il TAR Lazio accoglie in parte il ricorso di Tim avverso le sanzioni irrogate dall’AGCM per tre distinte condotte lesive dei diritti dei consumatori

Con la sentenza pubblicata lo scorso 18 dicembre, il Tribunale Amministrativo Regionale del Lazio (TAR Lazio) ha parzialmente accolto il ricorso proposto da Tim S.p.A. (Tim) avverso il provvedimento con cui l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM) aveva sanzionato la stessa Tim per una somma pari a complessivi Euro 2.000.000 per avere messo in atto tre diverse condotte in violazione degli obblighi di informazione precontrattuale e sul diritto di recesso nella conclusione di contratti a distanza negoziati al di fuori dei locali commerciali.

In particolare, Tim era stata sanzionata per avere poste in essere le seguenti condotte:

(i) omesso di fornire in maniera chiara e comprensibile le informazioni richieste dalla disciplina sui diritti del consumatore;

(ii) dato un principio di esecuzione al contratto ovvero proceduto all’avvio del processo di attivazione della linea e/o di migrazione da altro operatore durante il periodo di recesso senza relativa autonoma richiesta esplicita da parte del consumatore prevista dalla medesima disciplina; e

(iii) richiesto e/o addebitato al consumatore che eserciti il diritto di ripensamento da un contratto a distanza e/o negoziato fuori dai locali commerciali dei costi relativi a un importo correlato al servizio acquistato e fruito fino al momento dell’invio della comunicazione di recesso, nonostante la mancanza di una previa informativa relativa a tale possibile addebito.

Tra i sette diversi motivi di ricorso presentati da Tim, il TAR Lazio ha accolto (parzialmente) solo l’ultimo, con il quale veniva contestata la quantificazione della sanzione operata dall’AGCM.

In particolare, il TAR Lazio ha stabilito che non possono essere considerate fondate, tra l’altro, le argomentazioni con cui Tim si appella a un presunto affidamento ingenerato dalla conclusione favorevole di diversi procedimenti per pratiche commerciali scorrette recentemente avviati dall’AGCM e definiti attraverso misure di moral suasion e l’adozione di interventi migliorativi – procedimenti, peraltro, relativi a pratiche diverse rispetto a quella in oggetto – segnatamente, vendita online di beni, modalità di presentazione delle informazioni nell’ambito del sito internet di Tim, e teleselling – e dunque inidonei a generare affidamento nel caso di specie. Il TAR Lazio ha altresì rilevato l’irrilevanza dell’assenza di segnalazioni della condotta in discorso da parte di consumatori, poiché tali segnalazioni non costituiscono un presupposto di validità dell’adozione di provvedimenti sanzionatori.

Sono invece state accolte – come anticipato – le doglianze di Tim laddove quest’ultima lamenta l’omessa considerazione, da parte dell’AGCM, nel procedimento di quantificazione della sanzione, in primo luogo della scarsa rilevanza degli effetti pratici della condotta; nonché altresì delle incertezze interpretative derivanti dalla relativa novità della normativa, entrata in vigore nel 2014. Il TAR Lazio ha ritenuto di poter stimare l’incidenza di detti fattori sulla gravità della condotta nella misura del 25%, e ha pertanto disposto che la sanzione deve essere rideterminata nella complessiva somma di Euro 1.500.000.

Risulta di particolare rilievo il fatto che il TAR Lazio, dopo avere identificato gli aspetti che l’AGCM avrebbe mancato di tenere in considerazione per la quantificazione della sanzione, abbia direttamente assegnato una proporzione percentuale esatta all’incidenza di tali fattori sulla sanzione, e abbia di conseguenza potuto rideterminare quest’ultima, invece di deferire all’AGCM il procedimento per una nuova quantificazione.

Riccardo Fadiga
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Legal news / Libertà di stabilimento e settore dei media – Secondo l’AG Campos Sánchez-Bordona la normativa italiana che impedisce a Vivendi di acquisire il 28% del capitale sociale di Mediaset è contraria al diritto UE

Lo scorso 18 dicembre, l’avvocato generale Campos Sánchez-Bordona (AG) ha presentato le proprie conclusioni nell’ambito del rinvio pregiudiziale proposto dal Tar Lazio (Tar) a seguito dell’impugnazione da parte di Vivendi SA (Vivendi) della delibera con cui l’Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni (AGCom) aveva accertato che il gruppo francese, acquisendo il 28,8% del capitale sociale di Mediaset Italia Spa (Mediaset), aveva violato l’art. 43, comma 11, del Testo unico dei servizi di media audiovisivi e radiofonici (TUSMAR). In ottemperanza a tale decisione dell’AGCom, Vivendi era stata costretta a congelare due terzi delle proprie azioni Mediaset, e dei corrispondenti diritti di voto, in un trust indipendente.

Vivendi è una società francese al vertice di un gruppo attivo nel settore dei media e nella creazione e distribuzione di contenuti audiovisivi. Al tempo in cui è sorta la controversia, essa deteneva il controllo di TIM mediante una partecipazione del 23,94% nel capitale della società. In seguito ad alcuni contrasti sorti nell’ambito di un contratto di parternship strategica tra Vivendi, Mediaset e Reti Televisive Italiane SpA, il gruppo francese ha avviato una campagna ostile di acquisizione delle azioni di Mediaset, arrivando a detenere il 28,8% del capitale sociale di Mediaset, pari al 29,94% dei suoi diritti di voto. Tuttavia, tale partecipazione minoritaria qualificata non le consentiva di esercitare il controllo su Mediaset, che continuava ad essere controllata dal gruppo Fininvest.

Nel dicembre del 2016, Mediaset ha denunciato all’AGCom che Vivendi, acquisendo le predette partecipazioni, aveva violato l’articolo 43, comma 11, del TUSMAR. In particolare, tale articolo prevede che “… le imprese, anche attraverso società controllate o collegate, i cui ricavi nel settore delle comunicazioni elettroniche […] sono superiori al 40 per cento dei ricavi complessivi di quel settore, non possono conseguire nel sistema integrato delle comunicazioni ricavi superiori al 10 per cento del sistema medesimo …”.

Con la delibera n.178/17/CONS del 18 aprile 2017, l’AGCom ha accertato tale violazione da parte di Vivendi, la quale è stata costretta a trasferire ad una società indipendente (la Simon Fiduciaria SpA) la proprietà del 19,19% delle azioni Mediaset (pari al 19,95% dei diritti di voto). Vivendi ha impugnato la delibera dell’AGCom dinanzi al Tar, il quale, a sua volta, ha chiamato in causa la Corte di Giustizia dell’Unione europea (CdG) per valutare la compatibilità dell’art. 43, comma 11, del TUSMAR con il diritto dell’Unione europea.

Le questioni pregiudiziali affrontate dell’AG vertono sulla compatibilità di vari elementi dell’art. 43, comma 11, del TUSMAR con i principi di diritto comunitario in merito alla libertà di circolazione dei capitali, alla libertà di stabilimento e alla libera prestazione di servizi. In particolare, il TAR ha chiesto se la normativa italiana:

(i) sia, o meno, contrastante con il principio della libertà di circolazione dei capitali nella parte in cui si limita il settore delle comunicazioni elettroniche ai mercati suscettibili di regolamentazione ex ante;
(ii) sia, o meno, contrastante con i principi di libertà di stabilimento e di libera prestazione di servizi, nella parte in cui la soglia di sbarramento del 10% nel sistema integrato delle comunicazioni (SIC) sia rapportabile anche ad imprese non controllate né soggette ad influenza dominante, ma anche solo “collegate” nei termini di cui all’art. 2359 del codice civile, pur risultando non esercitabile in concreto un’influenza sulle informazioni da diffondere;
(iii) sia, o meno, contrastante con i principi di libertà di stabilimento e di libera prestazione di servizi, considerato che l’art. 43, comma 9, TUSMAR sottopone i normali operatori di comunicazioni elettroniche (ossia quelli con ricavi inferiori al 40% dei ricavi complessivi del settore) a soglie di sbarramento nel SIC molto superiori, pari al 20%.

Innanzitutto, l’AG ha sottolineato che la normativa italiana impone restrizioni alla libertà di circolazione dei capitali e alla libertà di stabilimento. Tuttavia, alla luce delle caratteristiche della controversia principale, dalla quale si evince la volontà di Vivendi di esercitare un’effettiva influenza sulle decisioni di Mediaset, e della giurisprudenza convergente della CdG sulle due libertà in parola, l’AG ha ritenuto sufficiente esaminare la compatibilità della normativa italiana soltanto con riferimento al diritto di stabilimento.

Rispondendo congiuntamente alle questioni pregiudiziali, l’AG ha ritenuto che l’effetto restrittivo della normativa italiana derivasse dalla combinazione dei tre elementi evocati dal giudice del rinvio:

(i) l’utilizzo di una nozione limitata del settore delle comunicazioni elettroniche, circoscritto ai mercati suscettibili di regolamentazione ex ante, escludendo così mercati concorrenziali di importanza crescente per la trasmissione delle informazioni (ad es. il mercato dei servizi al dettaglio di telefonia mobile e servizi di comunicazioni elettroniche collegati a internet);
(ii) il computo dei ricavi delle società collegate per calcolare le quote di mercato nel settore delle comunicazioni elettroniche e nel SIC;
(iii) la determinazione di soglie diverse (il 20% e il 10%) per l’acquisizione di partecipazione nel SIC.

L’AG ha riconosciuto che le restrizioni previste dalla normativa italiana fossero, almeno in astratto, idonee a conseguire l’obiettivo di tutela del pluralismo delle informazioni. Allo stesso tempo, ha espresso seri dubbi in merito alla proporzionalità di tali restrizioni. In primo luogo, secondo l’AG, la delimitazione dei mercati delle comunicazioni elettroniche non presenta alcun nesso con l’obiettivo di garantire il pluralismo del settore dei media. In secondo luogo, i requisiti di proporzionalità potrebbero non essere compatibili con la quota molto ridotta di ricavi (10%) del SIC, fissata quale limite massimo per le imprese i cui ricavi nel settore delle comunicazioni elettroniche superino il 40% dei ricavi complessivi di tale settore. L’AG ha sottolineato che, sebbene esista un collegamento tra i due settori, ciò non significa che le imprese attive nei servizi di comunicazione elettronica possiedano la capacità intrinseca di influire nel settore dei media. Infine, secondo l’AG, sarebbe sproporzionato applicare in modo automatico la presunzione prevista dall’art. 2359 cc. per qualificare una società come collegata.

L’AG ha concluso che l’art. 43, comma 11, TUSMAR è in contrasto con la libertà di stabilimento, se (i) per settore delle comunicazioni elettroniche si intende unicamente quelle che comprende i mercati suscettibili di regolamentazione ex ante; e (ii) il divieto è imposto alle imprese collegate ad un’impresa principale sulle quali essa non è in grado di esercitare un’influenza notevole. La risposta dell’AG, tuttavia, appare in parziale contraddizione con le sue stesse considerazioni, nella misura in cui non viene messa in discussione la compatibilità della normativa italiana alla luce della soglia di sbarramento ridotta, pari al 10% dei ricavi nel SIC, o della differenza tra questa quota e quella pari al 20% prevista per i normali operatori di comunicazioni elettroniche.

Alla luce di tali elementi, appare incerto prevedere se e come la CdG seguirà puntualmente quanto proposto dall’AG.

Luigi Eduardo Bisogno
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Diritto UE e piattaforme online – Dopo il caso Uber, la Corte di Giustizia si pronuncia sulla qualificazione dei servizi offerti da Airbnb come servizi di società dell’informazione

Lo scorso 19 dicembre, la Corte di Giustizia (CdG) si è pronunciata in via pregiudiziale, nella causa C-390/18, sulla natura del servizio offerto da Airbnb. La causa trae origine da un procedimento penale avviato in Francia a seguito di una denuncia (la Denuncia), con costituzione di parte civile, depositata contro Airbnb Ireland dall’Association pour un hébergement et un tourisme professionnels (Associazione francese per l’alloggio e il turismo professionali - AHTOP).

Con la Denuncia, l’AHTOP ha lamentato l’esercizio di un’attività di mediazione e gestione di immobili ed esercizi commerciali senza licenza per l’esercizio della professione ai sensi della legge detta “Hoguet”, applicabile in Francia alle attività dei professionisti del settore immobiliare. A sostegno di ciò, AHTOP ha sostenuto che la Airbnb Ireland non si limita a mettere in contatto due parti tramite l’omonima piattaforma ma offre servizi supplementari caratteristici di un’attività di mediatore in operazioni immobiliari.

In questo riquadro, il Tribunale di primo grado di Parigi si è chiesto se il servizio fornito dalla Airbnb Ireland debba essere qualificato come “servizio della società dell’informazione”, ai sensi della Direttiva 2000/31/CE (Direttiva sul commercio elettronico) e, in caso di risposta affermativa, se quest’ultima osti al fatto che la legge Hoguet sia applicata a tale società nel contesto del procedimento principale o se, al contrario, la Direttiva sul commercio elettronico non osti all’avvio di un procedimento penale a carico di Airbnb Ireland in base a tale legge.

Sulla base di ciò, il Tribunale di primo grado di Parigi ha deciso di sospendere il procedimento e di proporre alla CdG due questioni pregiudiziali, ossia:

“1)    Se le prestazioni fornite in Francia da […] Airbnb Ireland mediante una piattaforma elettronica gestita dall’Irlanda godano della libertà di prestazione di servizi prevista dall’articolo 3 della direttiva 2000/3 …;
 2)     Se le norme restrittive relative all’esercizio della professione di agente immobiliare in Francia, previste dalla [legge Hoguet], siano opponibili a […] Airbnb Ireland”.

In risposta alla prima questione pregiudiziale, ossia circa la qualifica del servizio di mediazione fornito da Airbnb Ireland, la CdG ha fatto riferimento alla sentenza C – 434/15 Asociación Profesional Elite Taxi, in cui è stato stabilito che, se un servizio di mediazione soddisfa i requisiti di cui all’articolo 2, lett. a) della Direttiva sul commercio elettronico – il quale prevede che “... qualsiasi servizio della società dell’informazione, vale a dire qualsiasi servizio prestato normalmente dietro retribuzione, a distanza, per via elettronica e a richiesta individuale di un destinatario di servizi …”, costituisce un “… servizio della società dell’informazione …”. Tuttavia, la CdG puntualizza che si deve arrivare a conclusioni differenti nel caso in cui detto servizio di mediazione costituisca parte integrante di un servizio globale il cui elemento principale è un servizio al quale va riconosciuta una diversa qualificazione giuridica. Nel caso di specie, l’AHTOP ha affermato che il servizio di mediazione offerto da Airbnb costituisce parte integrante di un servizio globale, il cui elemento principale consiste in una prestazione di alloggio. Proprio sulla base di ciò, essa ritiene che la Airbnb Ireland offra servizi complementari che caratterizzerebbero un’attività di mediazione in operazioni immobiliari. La CdG, peraltro, ha ritenuto che “… benché indubbiamente il servizio di mediazione fornito dalla Airbnb Ireland miri a consentire la locazione di un alloggio di cui è pacifico che sia soggetta alla direttiva 2006/123, la natura dei collegamenti tra questi servizi non giustifica il fatto di negare la qualifica di «servizio della società dell’informazione» per detto servizio di mediazione e, pertanto, l’applicazione al medesimo della direttiva 2000/31”.

Tra le motivazioni che la CdG ha utilizzato per sottolineare il carattere distinto dei servizi offerti da Airbnb rispetto alle prestazioni di alloggio alle quali si collega, in primo luogo rileva che esso, a differenza dei servizi di mediazione oggetto della sentenza relativa ad Uber (C-320/18, commentata nella newsletter dell’8 gennaio 2018), non è possibile dimostrare l’esistenza di un’influenza decisiva esercitata da Airbnb Ireland sui servizi di alloggio ai quali si collega la sua attività, per quanto concerne sia la determinazione dei prezzi delle locazioni pretesi, sia la selezione dei locatori o degli alloggi posti in locazione sulla sua piattaforma.

In relazione alla seconda questione pregiudiziale, la Corte ha esaminato se Airbnb Ireland possa opporsi al fatto che le venga applicata una legge (in questo caso, la legge Hoguet) che limita la libera prestazione dei servizi della società dell’informazione forniti da un operatore a partire da un altro Stato membro, per il motivo che detta legge non è stata notificata dalla Francia, conformemente a quanto disposto dall’articolo 3, paragrafo 4, lettera b), della Direttiva sul commercio elettronico. A questo proposito, la CdG ha ritenuto che il fatto che la legge Hoguet sia anteriore all’entrata in vigore della Direttiva sul commercio elettronico non esonera la Francia dall’obbligo di notifica ad essa incombente.

Nella sentenza in commento, la CdG si è concentrata sull’oggetto specifico del giudizio francese, evitando invece di esprimersi su altre tematiche generali che il modello Airbnb solleva, come ad esempio quelle relative ad un possibile adeguamento dei locatori alle normative alberghiere. A tal riguardo, pare prevedibile che, se non ci saranno interventi dal punto di vista legislativo a livello europeo, nuove domande pregiudiziali sulla stessa materia saranno sottoposte ai giudici europei.

Mila Filomena Crispino
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Riassunto del contratto e servizi di comunicazione elettronica – Dal dicembre 2020 i fornitori di servizi di comunicazione elettronica dovranno inviare ai clienti un riassunto dei contratti per confrontare termini e prezzi

Lo scorso 17 dicembre, la Commissione europea (Commissione) ha approvato un nuovo regolamento di esecuzione ai sensi della Direttiva 2018/1972, recante il codice europeo delle comunicazioni elettroniche, che obbliga i fornitori di tali servizi di comunicazioni a fornire ai consumatori – nonché alle microimprese, alle piccole imprese e alle organizzazioni no-profit – un riassunto delle condizioni chiave del contratto (c.d. contract summary), secondo il modello definito dalla Commissione stessa.

Lo scopo del contract summary è di consentire ai consumatori di confrontare più agevolmente le diverse offerte di servizi di comunicazione prima della conclusione di un contratto. Pertanto, esso dovrà essere lungo da una fino a tre pagine massimo e dovrà presentare le informazioni in maniera chiara, concisa e facilmente leggibile. Il contract summary, inoltre, dovrà contenere tutti gli elementi essenziali del contratto quali, ad esempio, i dati di contatto del fornitore, la descrizione del servizio, la velocità del servizio internet, il prezzo, la durata, e le condizioni di rinnovo e risoluzione del contratto.

Tale nuovo obbligo a carico dei fornitori dei servizi di comunicazione elettronica entrerà in vigore dal 21 dicembre 2020.

Luigi Eduardo Bisogno
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